Google Analytics: perchè non basta guardare il tempo di permanenza sulla pagina

Google Analytics: perchè non basta guardare il tempo di Google Analytics: perchè non basta guardare il tempo di permanenza sulla pagina
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Il Tempo medio di durata di una sessione, così come il suo complemento, il Tempo medio di permanenza su una pagina (Average Time on Page) sono due di quelle classiche metriche di Web Analytics che dovrebbero servire a misurare l’efficacia in termini di engagement di un sito web.

L’engagement e le misure di durata

L’importanza di una misura di tempo o di durata, quando si tratta di valutare la nostra capacità di creare coinvolgimento nei nostri visitatori, è chiaramente visibile a tutti. La fruizione dei contenuti di una pagina web, infatti, ha delle regole tutte sue, che poco o nulla hanno a che fare con la lettura di un libro o anche di una rivista cartacea.

La struttura tipicamente “verticale” di ogni sito web fa sì che vi sia, accanto a quella che con un gergo antico tratto dal Direct Marketing viene definita Above the Fold, un’area del tutto nascosta, che può essere visualizzata solamente dopo un’azione volontaria di scroll verticale. È evidente, però, che questa azione debba essere in qualche modo sollecitata: non a caso, il design dei migliori siti web è costruito riportando in alto tutte le informazioni di interesse commerciale, e lasciando per la parte Below the Fold gli approfondimenti, le informazioni di contorno e il così detto user generated content, come ad esempio le recensioni.

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Tutto, insomma, in un sito web attento all’ottimizzazione del tasso di conversione o in un blog che cerca il coinvolgimento dei propri lettori dovrebbe essere fatto in modo da mantenere il visitatore il più possibile ancorato al sito, e portarlo così da una pagina all’altra, giù verso il funnel di conversione.

Tuttavia, sappiamo anche che difficilmente queste strategie hanno subito successo.

Uno studio di un annetto fa, le cui conclusioni furono pubblicate sul  Time  a firma di Tony Haile, metteva bene in evidenza questo aspetto, spiegando, tra l’altro, che il 55% degli utenti esce da una pagina su cui ha cliccato in meno di 15 secondi – percentuale che diventa del 30% circa per le pagine come questa, contenenti articoli o contenuti editoriali.  

È ovvio, allora, che cercare di aumentare la percentuale di utenti che supera questo tempo soglia è importante, ai fini di generare un miglioramento sensibile nel proprio tasso di conversione finale. Mettere in atto strategie di CRO basate sul tempo medio di permanenza sulle pagine, insomma, è senza dubbio una scelta sensata, e che a lungo andare può consentire ottimizzazioni sensibili lungo tutto il processo di conversione.

Questo è tanto vero, che in Google Analytics alla metrica dedicata alla registrazione del tempo medio di durata di ogni sessione è addirittura affiancata una tipologia specifica di obiettivo: quello di durata minima di una sessione.

Le misure di durata in Analytics

A fronte di una necessità concreta, quindi – quella di mettere in atto strategie tese a prolungare il tempo di permanenza medio sulle nostre pagine web e di misurare i risultati dei nostri test di ottimizzazione in modo scientifico – Google Analytics risponde con delle metriche specifiche, in grado di fornirci indicazioni in qualche modo utili a questo scopo.

Tuttavia, una volta tanto anche un fan di Google Analytics come me deve ammettere che, almeno in questo caso, non è tutto oro quello che riluce.

Già: perché su tutto ciò che è calcolo di tempo, Analytics diventa necessariamente approssimativo.

tempo permanenza analytics

Guarda la tabella qui sotto – presa volutamente in modo da visualizzare solo pagine con un basso numero di visualizzazioni. Delle due colonne evidenziate, la prima è il nostro tempo medio di permanenza sulla pagina; la seconda è la frequenza di rimbalzo – ossia, la percentuale di sessioni che si sono chiuse senza che vi sia stato alcun hit di interazione successivo al primo pageview.

Cosa osserviamo? Anzitutto, vediamo che vi sono state alcune visualizzazioni di pagina che sono durate un tempo medio inferiore a 1 secondo. La seconda, è che tutte le volte che quelle pagine sono state pagine di accesso, abbiamo un bounce rate del 100%. La terza, è che ci sono delle pagine non di accesso, in cui il bounce rate è dello 0% (ovviamente!) e che ancora una volta hanno un tempo medio pari a zero.

Perché ti faccio notare tutte queste cose?

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È molto semplice: perché sono tutte correlate tra loro.

Il punto è che Google Analytics non misura affatto, come molti credono, il tempo di permanenza di ogni nostro utente su una pagina. Google Analytics misura – per differenza – il tempo che intercorre tra i timestamp presenti nel proprio database relativi ad ogni sessione.

Provo a spiegarmi meglio, con l’aiuto di questa illustrazione (fonte: Google.com).

tempo permanenza analytics 2

Quelle che vedi qui sono tre pagine successive visualizzate da un utente nel corso della stessa sessione tra le 10:00 e le 10:10 del mattino di un giorno di sole (nessuna interruzione di corrente!).

Il nostro utente entra nella prima pagina del nostro sito alle 10:00 esatte.  Il dato temporale viene registrato da Google Analytics, perché noi inviamo un hit in corrispondenza dell’evento Pageview della nostra pagina.

Successivamente, dopo 5 minuti, il nostro utente decide di spostarsi su una seconda pagina del nostro sito, seguendo un link interno. Ancora una volta, Analytics registra l’evento Pageview della seconda pagina.

È qui che avviene il trucco.

Non vi è alcuna registrazione dell’evento PageUnload. Questo evento non viene mai inviato ad Analytics: il nostro tool preferito si deve dunque ingegnare, e procedere per differenza, stabilendo che, se la seconda pagina viene caricata alle 10:05, è proprio in quel momento che la prima pagina finisce di essere letta. Tempo di permanenza sulla prima pagina: 5 minuti, quindi.

Lo stesso meccanismo caratterizzerà il passaggio dalla seconda alla terza pagina.

Proprio in quest’ultima pagina, però, iniziano i problemi. Il nostro utente decide di averne abbastanza, e chiude brutalmente la sessione, spegnendo il PC o semplicemente digitando un altro indirizzo sul sul browser web.

Che succede? Succede che Analytics ha registrato l’ingresso sulla terza pagina con un timestamp specifico (le 10:10 del mattino), ma non ha alcun elemento per determinare quanto tempo il nostro utente è rimasto sulla pagina.

Sentenza: dato che ciò che non si può misurare non esiste, Analytics imposterà il tempo di permanenza sulla terza pagina a zero, e il tempo complessivo della sessione a 600 secondi. Dato però che a un tempo di zero secondi corrisponde comunque una visualizzazione di pagina, entrambi questi numeri entreranno a buon diritto nel calcolo del tempo medio di permanenza di tutti gli utenti sulla nostra pagina.

Come fare allora?

Se il tempo di permanenza su una pagina è una metrica inaffidabile, siamo costretti a rinunciare ai nostri sforzi di Conversion Rate Optimization che si basino sull’aumento della durata media?

Ovviamente no. Sarebbe saggio, però, affiancare a questa metrica altre metriche, quali la frequenza di rimbalzo, appunto, per avere una lettura più ampia del dato che stiamo misurando, e soprattutto ricordarsi che, come sempre, nel processo di ottimizzazione non ci si scontra con termini assoluti, ma con la realtà del nostro sito web.

Ben vengano quindi tutti gli sforzi tesi a migliorare i valori medi di durata, purché siano misurati a partire da un numero consistente di sessioni e facendo degli A/B test che verifichino accuratamente le ottimizzazioni versus un controllo che sia contemporaneo alle variazioni che abbiamo introdotto: una regola sempre valida, ma valida a maggior ragione quando trattiamo con grandezze approssimative come l’Average Time on Page.

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